La storia non si fa con i “se”, ma questi certamente aiutano a capire meglio il significato delle cose. E qui ne abbiamo uno grande come una casa: cosa sarebbe successo se Steve Jobs avesse venduto la “sua” Pixar ad Apple anziché a Disney? Anzi, possiamo chiederci proprio perché non lha fatto.

Sappiamo che nel pantheon degli imprenditori visionari, Steve Jobs occupa un posto d’onore non solo per ciò che ha realizzato, ma anche per quel che avrebbe potuto fare se il tempo fosse stato dalla sua parte. La storia dell’acquisizione di Pixar da parte di Disney nel 2006 rappresenta uno dei più affascinanti “What if?”, “E se?” della storia recente della tecnologia.

Infatti, Jobs si trovò allora nell’insolita posizione di vendere una delle sue creature più brillanti (Pixar) a un concorrente invece che integrarla nell’altra sua creazione (Apple), nonostante la logica dell’integrazione verticale fosse il mantra della sua filosofia imprenditoriale. La ragione? Un semplice, implacabile disallineamento temporale.

Quando gli orologi non battono all’unisono

Nel 2006, Apple e Pixar vivevano in due dimensioni temporali completamente sfasate. L’azienda di Cupertino stava appena completando la sua rinascita dopo i tempi bui degli anni ’90, cavalcando il successo dell’iPod ma non ancora consapevole del terremoto che iPhone avrebbe scatenato l’anno successivo con la prima versione dell’iPhone. Con una capitalizzazione di mercato ben lontana dall’astronomica valutazione attuale, Apple semplicemente non aveva la potenza di fuoco per assorbire un’acquisizione da 7,4 miliardi di dollari. Il focus strategico era interamente sull’hardware e sulla piattaforma software, con Tim Cook impegnato a perfezionare la catena di fornitura mentre l’azienda si preparava alla più grande rivoluzione della sua storia.

Il cancello dei Pixar Animation Studios (Immagine Wikipedia)
Il cancello dei Pixar Animation Studios (Immagine Wikipedia)

Pixar, d’altro canto, aveva già raggiunto la piena maturità artistica e commerciale, con una serie di successi planetari (a partire da quello clamoroso di Toy Story)che ne facevano un gioiello ambito. Lo studio cinematografico che ha ridefinito la computer grafica sul grande schermo aveva bisogno di un partner che potesse immediatamente valorizzarne il potenziale nel settore dell’intrattenimento, con infrastrutture distributive già collaudate e sinergie immediate. Disney offriva esattamente questo, mentre Apple avrebbe potuto solo promettere un futuro incerto in un settore che all’epoca non presidiava affatto. Il celebre senso del timing di Jobs dovette piegarsi alla realtà: le lancette non erano sincronizzate.

Un’opportunità che non sarebbe tornata

What if, allora. Se Apple avesse potuto acquisire Pixar, il panorama tecnologico e dell’intrattenimento odierno sarebbe probabilmente molto diverso. L’azienda di Cupertino avrebbe anticipato di oltre un decennio il suo ingresso nel mondo dei contenuti originali, ponendosi in una posizione privilegiata nell’era dello streaming prima ancora che questa iniziasse. L’integrazione tra la raffinatezza tecnologica di Apple e il genio narrativo di Pixar avrebbe potuto generare prodotti rivoluzionari, in cui hardware, software e contenuti si fondevano in un’esperienza totalmente nuova. L’ecosistema Apple si sarebbe arricchito di personaggi iconici e storie indimenticabili, creando un vantaggio competitivo incolmabile rispetto ai rivali.

Ma la Storia, quella con la “esse” maiuscola, non concede repliche, e Jobs dovette accontentarsi di un compromesso: diventare il principale azionista individuale di Disney, entrando nel consiglio di amministrazione della major hollywodiana. La soluzione gli permise comunque di mantenere un’influenza significativa sul destino di Pixar, proteggendone l’identità creativa pur cedendone il controllo formale. Ancora una volta, il pragmatismo vinse sull’ideale, dimostrando che anche i visionari più brillanti devono talvolta accettare che l’orologio della storia ha i suoi ritmi inderogabili.