Era un computer strano, il Mac mini. Anzi, stranissimo: un cubo di plastica bianca e alluminio alto poco più di cinque centimetri con dentro un computer vero, un Mac che costava solo 499 dollari (da noi meno di 400 euro, tasse incluse). Un miraggio, per chi voleva entrare nel mondo della mela. Solo che non c’era proprio niente: niente monitor, niente tastiera, niente mouse. Solo l’alimentatore. BYODKM, diceva Steve Jobs sul palco del MacWorld di San Francisco del gennaio 2005: “Bring Your Own Display, Keyboard and Mouse”. Come dire: il computer te lo vendiamo noi, il resto arrangiati.
La filosofia era semplice ma geniale: chi voleva passare dal mondo Windows a quello Mac poteva farlo senza buttare via tutto. Anzi, riciclando tutto quel che aveva già e spendendo il minimo indispensabile. Una idea democratica, quasi “socialista”, per una azienda che faceva (e fa) del design e della qualità il suo mantra. Ma funzionò: la gente lo adorò, anche se non fu mai un best seller. Era un computer di nicchia che però ha fatto scuola.
Nel tempo il piccolo Mac si è evoluto, ha cambiato forma (è diventato più sottile ma più largo, poi è tornato quadrato ma è molto più piccolo), ha cambiato processore tre volte (PowerPC, Intel e adesso Apple Silicon), ha cambiato colore (dal bianco all’alluminio spazzolato sino al grigio siderale per poi tornare all’argento). Ma non ha mai cambiato missione: essere il Mac più economico e versatile di sempre.
Oggi il Mac mini con M4 e M4 Pro è una potenza della natura in miniatura, capace di fare tremare workstation che costano cinque volte tanto. Ha pure fatto da apripista per la nuova gamma consumer di Apple ed è diventato il computer preferito dagli sviluppatori. E c’è addirittura chi negli Usa ha creato un datacenter fatto tutto con Mac mini. Non male per una scatoletta nata per convertire gli utenti Windows che avevano paura di spendere troppo per entrare nel mondo Apple.
La vita è random
Era un’altra Apple, sicuramente. Anche perché nel 2005, per dirla tutta, non fu solo il Mac mini a stupire: Jobs tirò fuori dal cilindro anche l’iPod shuffle, una barretta USB travestita da lettore musicale senza schermo. Costava 99 dollari, era grande come un pacchetto di chewing-gum e non aveva niente se non un pulsante circolare e uno switch per passare dalla modalità sequenziale a quella casuale. Conteneva al massimo 120 canzoni in 512 MB di memoria.
“La vita è random”, diceva lo slogan. Ci furono altre quattro generazioni di iPod Shuffle, prima che venisse travolto dalla musica via iPhone e facesse la fine del Dodo. Ma per molti fu amore a prima vista, anche se non si capiva mai che canzone stesse per partire. Il bello però era proprio quello: abbracciare la casualità. Tutto molto zen, proprio come piaceva a Steve Jobs.