Era solo una lettera di poche righe, scritta nell’estate del 1954 durante una pausa della scuola estiva di Varenna, sul lago di Como. Enrico Fermi, il premio Nobel per la fisica che aveva costruito il primo reattore nucleare a Chicago, suggeriva al rettore dell’università di Pisa come investire i fondi che si erano ritrovati tra le mani dopo aver perso la gara per l’elettrosincrotone, vinta dal centro di Frascati. La risposta era semplice ma rivoluzionaria: costruire una “macchina calcolatrice elettronica“. Il rettore dell’università di Pisa, il professor Avanzi, rispose con deferenza che avrebbe tenuto “nel massimo conto” il suggerimento.

L’intuizione di Fermi andava ben oltre la semplice realizzazione di uno strumento di calcolo. Il fisico aveva compreso che il futuro della ricerca scientifica sarebbe passato attraverso la simulazione numerica: prima di fare esperimenti in laboratorio, si sarebbero potute verificare milioni di ipotesi con modelli matematici. Era un’idea che anticipava di decenni l’approccio contemporaneo alla ricerca scientifica e che apre la strada a idee molto suggestive (come ad esempio quella della simulazione in cui secondo alcuni vivremmo). Poche settimane dopo, il 28 novembre, Fermi sarebbe morto a Chicago, lasciando questo ultimo regalo alla scienza italiana.
Migliaia di valvole
L’Italia dell’epoca non stava certo a guardare. Mentre a Pisa si avviava il progetto della Calcolatrice Elettronica Pisana (CEP), al Politecnico di Milano il professor Luigi Dadda attraversava l’oceano per importare il primo computer americano. Due strade diverse ma complementari, che avrebbero posto le basi dell’informatica italiana. Così, il primo computer “acceso” da noi non era ancora “Made in Italy”, ma fu strategico lo stesso. Il Politecnico, infatti, divenne rapidamente il punto di riferimento per le applicazioni industriali.
A Milano arrivavano Pirelli, Edison, Eni: tutti volevano calcolare nuove dighe, tarare spettrografi di massa, risolvere problemi impossibili senza l’ausilio del calcolo elettronico. Il computer americano venne trasportato via nave, tra mille difficoltà burocratiche: a Genova in dogana non sapevano nemmeno come classificare quella strana macchina. E Dadda ricorda di aver negoziato con gli addetti alla dogana la possibilità di non applicare le marche da bollo su ciascuna delle migliaia di delicate valvole termoioniche usate per far funzionare il computer (il bollo era pensato per le valvole usate da radio e poi dai primi televisori). Nel 1954 iniziarono i primi corsi di informatica, con sei anni di anticipo sull’istituzione ministeriale del corso di laurea.
Tra Pisa e Barbaricina
A Pisa intanto la CEP prendeva forma come un progetto titanico. Settanta metri cubi di macchina, altrettanti di impianti di raffreddamento, un blocco di alimentazione da 110 Kilowatt. La macchina venne considerata tra i primi dieci computer al mondo dell’epoca, specializzata nel calcolo scientifico ad alte prestazioni.

Fu però la sinergia tra università e industria a segnare la vera svolta. A Barbaricina, frazione di Pisa, Adriano Olivetti aveva creato un laboratorio dove un gruppo di giovani ingegneri, guidati dal brillante Mario Tchou, lavorava fianco a fianco con i ricercatori universitari. Tchou, figlio di un diplomatico cinese e di madre italiana, era stato reclutato personalmente da Adriano Olivetti a New York su suggerimento dello stesso Fermi.
Dall’Elea 9003 alla Programma 101
“Le cose nuove si fanno solo con i giovani“, diceva Tchou, che non aveva neanche trent’anni. E di cose nuove il suo gruppo di ventenni neolaureati ne fece tantissime, inventando letteralmente una via all’informatica che ancora non esisteva. Il risultato di questa collaborazione fu l’Elea 9003, il primo computer commerciale al mondo realizzato interamente a transistor.
Con il design avveniristico di Ettore Sottsass, che gli valse il Compasso d’Oro, l’Elea rappresentava l’eccellenza italiana: tecnologia all’avanguardia vestita di eleganza tutta italiana. Meglio di Apple, mezzo secolo prima. Mentre la CEP era un supercomputer per la ricerca pura (tanta potenza di calcolo, relativamente poca memoria di massa) l’Elea 9003 era il nonno di tutti i mainframe: relativamente potente ma soprattutto dotato di soluzioni innovative per gestire la memoria di massa: aveva anche unità a nastro capaci di archiviare centinaia di migliaia di informazioni. Era molto grande e costoso, ma rivoluzionario per le grandi aziende. Ne vennero prodotti più di cinquanta esemplari (un successo clamoroso, per l’epoca), venduti a banche e aziende per la contabilità, l’anagrafe clienti, la gestione del magazzino.
Poteva essere l’inizio di una avventura straordinaria per Olivetti e il sistema italiano nel suo insieme. L’altro polo dell’informatica accanto agli Usa e al Regno Unito. Il destino però aveva in serbo altri piani. Nel giro di due anni, tra il 1960 e il 1961, prima Adriano Olivetti e poi Mario Tchou scomparvero tragicamente. Olivetti morì d’infarto su un treno diretto in Svizzera, Tchou in un incidente stradale sulla Milano-Torino. La divisione elettronica venne ceduta agli americani della General Electric, su consiglio del presidente della Fiat Vittorio Valletta.
Con quella cessione se ne andò anche la Programma 101, la “Perottina”, il primo personal computer della storia creato dall’ingegner Pier Giorgio Perotto. Olivetti sarebbe tornata all’informatica negli anni Settanta e Ottanta, ma ormai il momento magico era passato. Il sogno di un’Italia protagonista della rivoluzione digitale si era infranto.

La via italiana all’informatica
La lezione di quel periodo pionieristico resta ancora oggi attuale. Non fu solo una stagione di innovazione tecnologica, ma un momento in cui l’Italia dimostrò di saper coniugare ricerca scientifica, sviluppo industriale e design. Una capacità di visione che ci manca, proprio ora che l’informatica sta vivendo una nuova rivoluzione con l’intelligenza artificiale.
Il professor Franco Denoth, che di quella stagione fu uno dei protagonisti, in una intervista ammonisce: “Siamo all’oscurantismo della cultura informatica del nostro Paese. Pensiamo da utenti, mentre bisognerebbe recuperare il gusto dell’informatica e la capacità di intervenire nella struttura della macchina, anziché seguire gli schemi pensati oltre oceano“. Parole che, a settant’anni dalla lettera di Fermi, suonano come un invito a ritrovare quello spirito pionieristico.
La storia della CEP e dell’Elea non è solo un capitolo della storia industriale italiana, ma una dimostrazione di cosa può fare il nostro Paese quando sa coniugare visione, competenza e coraggio imprenditoriale. Un insegnamento che, nell’era dell’intelligenza artificiale (oggi in rapida evoluzione) e del quantum computing (il figlio rivoluzionario della meccanica quantistica), soprattutto dopo che abbiamo scoperto che non serve tantissimo per addestrare modelli di frontiera per l’intelligenza artificiale, potrebbe indicarci la strada per tornare protagonisti.
Alcune delle fonti di questo articolo:
- https://www.edizionidicomunita.it/catalogo/elea-9003/
- http://nid.dimi.uniud.it/computing_history/papers/elea.pdf
- https://www.storiainformatica.it/mydocuments/approfondimenti/mario_tchu_olivetti_elea_9003.pdf
- https://www.lombardiabeniculturali.it/scienza-tecnologia/schede/ST170-00024/
- https://www.olivettiani.org/wp-content/uploads/ELEA-9003_CS_Frigoriferi_new.pdf
- https://www.mimit.gov.it/images/stories/documenti/ELEA_9003REV.pdf